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“Il silenzio punitivo”

Quinto Girone

“Il silenzio punitivo”

Qualche giorno fa io e le mie amiche, sotto il calore dei funghi a gas nella sala di un bar, tra biscotti e cioccolate calde, ci confrontavamo su quello che diventa, ogni volta, l’immancabile tema di punta delle nostre chiacchierate: gli uomini e i loro strambi atteggiamenti. La scena e l’atmosfera fanno molto “Sex and the city” e, ammetto, che è così che mi sento (voi no?!) quando mi ritrovo con le mie ragazze a scambiarci aneddoti e storie, attuali e passate, che hanno per protagonisti volubili personaggi maschili. Ognuna di noi, seppure con percorsi differenti, ha un ricco curriculum sentimentale da spavento.

“Chi non ce l’ha?!” starete pensando, avete ragione, siamo qui proprio per questo motivo.

 

Ritornando alla “riunione” dell’altro giorno, i toni della conversazione erano ironici e leggeri, ormai poche cose ancora ci meravigliano anzi ci scherziamo anche su, ciononostante, si sono fatti più seri quando “R” ha catturato la nostra attenzione con:

«Sapete cosa mi faceva stare veramente male quando stavo insieme al mio ex? Il suo silenzio. Non era nemmeno un silenzio, era il mutismo più assoluto, riusciva a stare zitto anche per settimane, come se io non esistessi e credo che fosse una forma di manipolazione».

 

“Din, din, din…”, campanello d’allarme.

 

Tuttavia, “C” e “A” obiettavano sulla questione manipolativa:

«Beh, poteva semplicemente non avere voglia di discutere, non è che ora siano tutti narcisisti patologici», hanno ribattuto d’accordo.

«No, non potete comprendere quanto fosse terribile quel silenzio e come mi faceva sentire o forse io non so spiegarvelo», ha continuato “R”.

 

Io ero esattamente nel mezzo delle due teorie. È vero, il non voler discutere è legittimo e non deve essere bollato in automatico come una tecnica manipolativa, così come gli stronzi non sono per forza narcisisti ma semplicemente stronzi e basta. È anche vero, però, che mi sia immedesimata nei silenzi di cui parlava “R” e, narcisismo o meno, ho compreso benissimo la sofferenza che cercava di spiegare.

 

Lo ricordo bene il primo “trattamento del silenzio” ricevuto, stentavo a credere che lo stessi vivendo sul serio. Possibile che non avessi compreso bene quanto fosse importante per lui la cottura di quei cazzo di gamberetti?

 

Li cucinò per me in una notte d’estate perché sapeva fossero il mio piatto preferito, mentre io apparecchiavo un’impeccabile tavola sul terrazzo degna di “Cortesie per gli ospiti”, Csaba sarebbe stata molto fiera di me. Le candele, intanto, bruciavano lasciando nell’aria quella scia di vaniglia che adoro tanto.

Wow, da sogno, vero?! Li sentite i violini?

 

Eh no, chiedo scusa ma vi devo riportare immediatamente alla realtà! Primo perché l’odore della citronella si mise a battagliare con quello della vaniglia avendo la meglio e poi perché le prospettive di una cena romantica si disintegrarono al quarto gamberetto. Ne mangiai uno e mi complimentai per quanto fosse buono, con il secondo ribadii il mio piacere. Al terzo, pensai di poter cambiare argomento ma mi fece notare quanto fosse stato bravo nell’impiattamento e quindi concordai con lui anche sulle ineccepibili qualità estetiche. Al quarto gamberetto: “Apocalypse Now!”.

 

«Ma non mi dici niente, non ti piacciono?», mi disse con tono sprezzante. Citronella e vaniglia messe K.O. dai fulmini e saette lanciati dai suoi occhi malvagi, si stava trasformando in non so chi o cosa.

«Come, non ti dico niente?», ero basita.

«Te lo sto dicendo ad ogni boccone!», ho continuato accennando comunque un sorriso, “starà scherzando” pensavo, anche se per la prima volta il suo sguardo mi faceva paura.

«Ma non hai detto niente sulla cottura». La sua voce mi pietrificò.

«La cottura è l’aspetto più importante della cucina e tu non dici nulla, non ti sei accorta che sono cotti alla perfezione?» Continuava a ruota libera lui, io lo fissavo nello sconcerto più totale.

 

Post-it: Ricordiamoci che i narcisisti sono assolutamente perfetti in ogni cosa e se lo ripetono da soli come un mantra. Naturalmente non è così. Buona parte di loro è seriamente convinta di esserlo, l’altra parte, invece, sa bene di non esserlo affatto. In ogni caso, entrambe le categorie hanno bisogno di autoconvincersi e soprattutto di convincere noi che sia così. Il loro cervello, di conseguenza, non contempla minimamente il fatto di non essere adorati per tutto ciò che sono e che fanno.

 

Non sapevo dove stesse andando a parare né tantomeno comprendevo per quale ragione fosse così fuori di sé, visti i complimenti che gli avevo fatto. Glieli avevo fatti, giusto? Ero di nuovo disorientata.

Loro hanno la capacità di ribaltarti il cervello in un nanosecondo.

 

«Sei un’ingrata! Ho cucinato per te, il tuo piatto preferito, e neanche un briciolo di apprezzamento merito?»

 

Stava avvenendo per davvero quell’allucinante “conversazione”? Ad ogni modo, dalle parole ai fatti, fuori di sé lanciò con veemenza le posate nel piatto lasciandomi subito dopo da sola, a tavola, in uno stato confusionale in balia del terrazzo che prese a girarmi intorno.

Vivevamo nella stessa casa, mi ha rivolto il primo sguardo e la prima parola dopo sei giorni.

Li contavo.

 

In quel lasso di tempo fatto di silenzio cosmico, che ho percepito come interminabile, non intuivo nemmeno lontanamente che pena stessi scontando. All’inizio mi sono anche sfiancata a chiedere, a cercare di estorcergli una spiegazione, niente, lui imperturbabile nel suo mutismo, io umiliata non esistevo. Così mi sono rassegnata e ho atteso l’assoluzione dei peccati, divorata da un senso di frustrazione e vuoto mai provato prima.

 

Ovviamente quando ha ricominciato a parlarmi è stato solo per riprendere la comunicazione dal punto in cui l’aveva interrotta, accusandomi ancora della mia ingratitudine, vomitandomi addosso tutto quello che lui faceva per me senza essere ammirato adeguatamente ferendo, così, con non curanza la sua infinita sensibilità.

 

Mi è appena scappato un sorriso ora, ironico, certo. Credetemi, pur sforzandomi, non ricordo una sola cosa bella fatta per me se non per il meschino gusto di rovinarmela prima, durante o un attimo dopo. Atteggiamento che trova spiegazione perversa in un’altra tecnica manipolativa e che pure scopriremo più avanti.

 

Post-it: I litigi e, di conseguenza, i silenzi punitivi sono sempre meticolosamente premeditati e strutturati ad hoc, come nei più efficaci piani editoriali. Il loro successo sta nel fatto che sono strategicamente innescati o nel corso del “love bombing” o subito dopo, periodo in cui noi siamo cotte a puntino, io lo ero sicuramente più dei gamberetti… oh, che non ho più mangiato!

 

Ed eccola qui la campana d’allarme con tutto il campanaro.

Ragioniamo. Cambiano gli episodi ma le motivazioni che scatenano “il gioco del silenzio” si basano sempre e solo sul nulla.

 

Razionalizziamo, razionalizziamo sempre. È l’unica chiave che apre la porta per venire fuori dal castello degli incubi e anche l’unico mezzo che possa permetterci di ridimensionare “la grandiosità” del personaggio che ci ha raggirato. Grandiosità che, ora sappiamo, si è appioppato da solo.

Riflettiamo. Se non fossimo totalmente ipnotizzate dal principe abusante, dopo un episodio così futile, il personaggio uscirebbe da quella porta a suon di calci nel sedere, di certo non stazionerebbe in casa con noi, tronfio e gongolante, a godersi il successo del colpo affondato.

 

Quando ci troviamo di fronte a dinamiche così destabilizzanti dovremmo fermarci e cercare a tutti i costi di fare appello alla nostra, anche poca, lucidità affinché ci riporti a ragionare prima di avanzare nel “labirinto dei perché”. I “perché” non esistono, sono solo frutto del piano diabolico del narcisista patologico.

 

Nei fatti sarebbe molto più semplice di quanto sembri, prendiamo ad esempio la celebre citazione del film “La verità è che non gli piaci abbastanza”.

In una scena al bancone del bar, Alex si rivolge a Gìgì dicendole: “Fidati, se un uomo ti tratta come se non gliene fregasse un cazzo di te, non gliene frega un cazzo di te davvero!”.

 

Dunque, per logica, aggiungiamoci anche questa: “Se in un litigio con reazioni spropositate ci sembra che non ci sia un valido motivo, quel motivo valido non c’è davvero.”

 

Ivana Napolitano ci spiega che il silenzio punitivo rappresenta una potente forma di manipolazione all’interno delle relazioni tossiche. Identificato in psicologia come atteggiamento passivo aggressivo, il silenzio come “punizione” viene utilizzato per far fronte alla rabbia. I manipolatori tollerano poco e male le frustrazioni, basta una parola “fuori posto”, un commento non gradito, un gesto o addirittura uno sguardo non approvato per minare il loro grandioso ego e per dare sfogo alla rabbia e alla ferita narcisista che tale “sfregio” ha inflitto. Spesso interrompono ogni forma di comunicazione con il/la partner, colpevole di non aver valorizzato in maniera adeguata il loro valore, appunto, scelgono il silenzio senza che l’altro abbia la possibilità di comprendere cosa sia successo. In realtà, ripudiano il confronto, non essendo capaci di sostenerlo. Il silenzio è un’arma micidiale che lascia chi lo subisce in una condizione di ansia e confusione, è un atto violento che reiterato nel tempo può causare danni psicofisici molto gravi.

 

Ma perché lo fanno? Cosa ci vogliono dire con il trattamento del silenzio?

Lo scopo è sempre lo stesso, avere il controllo di su di noi e ci stanno dicendo, in pratica, che noi esistiamo solo se e quando loro lo decidono.

 

Post-it: Qui rafforziamo ulteriormente il concetto che una relazione tossica non sia fatta propriamente da una vittima e un carnefice, come abbiamo visto nel girone precedente, anche quel “tossica” ci dice chiaramente qualcosa.

I protagonisti di tale relazione sono pari a una drogata e al suo pusher di fiducia, dipendenti entrambi l’uno dall’altra, bisognosi entrambi l’uno dell’altra.

 

Per il narcisista “il silenzio punitivo” è il primo vero test per mettere alla prova la “prescelta” e analizzarne il grado dipendenza attraverso l’entità del malessere che le provoca tale trattamento.

Dopodiché avrà il pieno controllo non solo sulla partner ma anche sulle “dosi silenti” da somministrare. Lui sa di essere la droga di lei e il silenzio messo in atto è la sua l’astinenza.

Quinto Girone

“Il silenzio punitivo”

Qualche giorno fa io e le mie amiche, sotto il calore dei funghi a gas nella sala di un bar, tra biscotti e cioccolate calde, ci confrontavamo su quello che diventa, ogni volta, l’immancabile tema di punta delle nostre chiacchierate: gli uomini e i loro strambi atteggiamenti. La scena e l’atmosfera fanno molto “Sex and the city” e, ammetto, che è così che mi sento (voi no?!) quando mi ritrovo con le mie ragazze a scambiarci aneddoti e storie, attuali e passate, che hanno per protagonisti volubili personaggi maschili. Ognuna di noi, seppure con percorsi differenti, ha un ricco curriculum sentimentale da spavento.

“Chi non ce l’ha?!” starete pensando, avete ragione, siamo qui proprio per questo motivo.

 

Ritornando alla “riunione” dell’altro giorno, i toni della conversazione erano ironici e leggeri, ormai poche cose ancora ci meravigliano anzi ci scherziamo anche su, ciononostante, si sono fatti più seri quando “R” ha catturato la nostra attenzione con:

«Sapete cosa mi faceva stare veramente male quando stavo insieme al mio ex? Il suo silenzio. Non era nemmeno un silenzio, era il mutismo più assoluto, riusciva a stare zitto anche per settimane, come se io non esistessi e credo che fosse una forma di manipolazione».

 

“Din, din, din…”, campanello d’allarme.

 

Tuttavia, “C” e “A” obiettavano sulla questione manipolativa:

«Beh, poteva semplicemente non avere voglia di discutere, non è che ora siano tutti narcisisti patologici», hanno ribattuto d’accordo.

«No, non potete comprendere quanto fosse terribile quel silenzio e come mi faceva sentire o forse io non so spiegarvelo», ha continuato “R”.

 

Io ero esattamente nel mezzo delle due teorie. È vero, il non voler discutere è legittimo e non deve essere bollato in automatico come una tecnica manipolativa, così come gli stronzi non sono per forza narcisisti ma semplicemente stronzi e basta. È anche vero, però, che mi sia immedesimata nei silenzi di cui parlava “R” e, narcisismo o meno, ho compreso benissimo la sofferenza che cercava di spiegare.

 

Lo ricordo bene il primo “trattamento del silenzio” ricevuto, stentavo a credere che lo stessi vivendo sul serio. Possibile che non avessi compreso bene quanto fosse importante per lui la cottura di quei cazzo di gamberetti?

 

Li cucinò per me in una notte d’estate perché sapeva fossero il mio piatto preferito, mentre io apparecchiavo un’impeccabile tavola sul terrazzo degna di “Cortesie per gli ospiti”, Csaba sarebbe stata molto fiera di me. Le candele, intanto, bruciavano lasciando nell’aria quella scia di vaniglia che adoro tanto.

Wow, da sogno, vero?! Li sentite i violini?

 

Eh no, chiedo scusa ma vi devo riportare immediatamente alla realtà! Primo perché l’odore della citronella si mise a battagliare con quello della vaniglia avendo la meglio e poi perché le prospettive di una cena romantica si disintegrarono al quarto gamberetto. Ne mangiai uno e mi complimentai per quanto fosse buono, con il secondo ribadii il mio piacere. Al terzo, pensai di poter cambiare argomento ma mi fece notare quanto fosse stato bravo nell’impiattamento e quindi concordai con lui anche sulle ineccepibili qualità estetiche. Al quarto gamberetto: “Apocalypse Now!”.

 

«Ma non mi dici niente, non ti piacciono?», mi disse con tono sprezzante. Citronella e vaniglia messe K.O. dai fulmini e saette lanciati dai suoi occhi malvagi, si stava trasformando in non so chi o cosa.

«Come, non ti dico niente?», ero basita.

«Te lo sto dicendo ad ogni boccone!», ho continuato accennando comunque un sorriso, “starà scherzando” pensavo, anche se per la prima volta il suo sguardo mi faceva paura.

«Ma non hai detto niente sulla cottura». La sua voce mi pietrificò.

«La cottura è l’aspetto più importante della cucina e tu non dici nulla, non ti sei accorta che sono cotti alla perfezione?» Continuava a ruota libera lui, io lo fissavo nello sconcerto più totale.

 

Post-it: Ricordiamoci che i narcisisti sono assolutamente perfetti in ogni cosa e se lo ripetono da soli come un mantra. Naturalmente non è così. Buona parte di loro è seriamente convinta di esserlo, l’altra parte, invece, sa bene di non esserlo affatto. In ogni caso, entrambe le categorie hanno bisogno di autoconvincersi e soprattutto di convincere noi che sia così. Il loro cervello, di conseguenza, non contempla minimamente il fatto di non essere adorati per tutto ciò che sono e che fanno.

 

Non sapevo dove stesse andando a parare né tantomeno comprendevo per quale ragione fosse così fuori di sé, visti i complimenti che gli avevo fatto. Glieli avevo fatti, giusto? Ero di nuovo disorientata.

Loro hanno la capacità di ribaltarti il cervello in un nanosecondo.

 

«Sei un’ingrata! Ho cucinato per te, il tuo piatto preferito, e neanche un briciolo di apprezzamento merito?»

 

Stava avvenendo per davvero quell’allucinante “conversazione”? Ad ogni modo, dalle parole ai fatti, fuori di sé lanciò con veemenza le posate nel piatto lasciandomi subito dopo da sola, a tavola, in uno stato confusionale in balia del terrazzo che prese a girarmi intorno.

Vivevamo nella stessa casa, mi ha rivolto il primo sguardo e la prima parola dopo sei giorni.

Li contavo.

 

In quel lasso di tempo fatto di silenzio cosmico, che ho percepito come interminabile, non intuivo nemmeno lontanamente che pena stessi scontando. All’inizio mi sono anche sfiancata a chiedere, a cercare di estorcergli una spiegazione, niente, lui imperturbabile nel suo mutismo, io umiliata non esistevo. Così mi sono rassegnata e ho atteso l’assoluzione dei peccati, divorata da un senso di frustrazione e vuoto mai provato prima.

 

Ovviamente quando ha ricominciato a parlarmi è stato solo per riprendere la comunicazione dal punto in cui l’aveva interrotta, accusandomi ancora della mia ingratitudine, vomitandomi addosso tutto quello che lui faceva per me senza essere ammirato adeguatamente ferendo, così, con non curanza la sua infinita sensibilità.

 

Mi è appena scappato un sorriso ora, ironico, certo. Credetemi, pur sforzandomi, non ricordo una sola cosa bella fatta per me se non per il meschino gusto di rovinarmela prima, durante o un attimo dopo. Atteggiamento che trova spiegazione perversa in un’altra tecnica manipolativa e che pure scopriremo più avanti.

 

Post-it: I litigi e, di conseguenza, i silenzi punitivi sono sempre meticolosamente premeditati e strutturati ad hoc, come nei più efficaci piani editoriali. Il loro successo sta nel fatto che sono strategicamente innescati o nel corso del “love bombing” o subito dopo, periodo in cui noi siamo cotte a puntino, io lo ero sicuramente più dei gamberetti… oh, che non ho più mangiato!

 

Ed eccola qui la campana d’allarme con tutto il campanaro.

Ragioniamo. Cambiano gli episodi ma le motivazioni che scatenano “il gioco del silenzio” si basano sempre e solo sul nulla.

 

Razionalizziamo, razionalizziamo sempre. È l’unica chiave che apre la porta per venire fuori dal castello degli incubi e anche l’unico mezzo che possa permetterci di ridimensionare “la grandiosità” del personaggio che ci ha raggirato. Grandiosità che, ora sappiamo, si è appioppato da solo.

Riflettiamo. Se non fossimo totalmente ipnotizzate dal principe abusante, dopo un episodio così futile, il personaggio uscirebbe da quella porta a suon di calci nel sedere, di certo non stazionerebbe in casa con noi, tronfio e gongolante, a godersi il successo del colpo affondato.

 

Quando ci troviamo di fronte a dinamiche così destabilizzanti dovremmo fermarci e cercare a tutti i costi di fare appello alla nostra, anche poca, lucidità affinché ci riporti a ragionare prima di avanzare nel “labirinto dei perché”. I “perché” non esistono, sono solo frutto del piano diabolico del narcisista patologico.

 

Nei fatti sarebbe molto più semplice di quanto sembri, prendiamo ad esempio la celebre citazione del film “La verità è che non gli piaci abbastanza”.

In una scena al bancone del bar, Alex si rivolge a Gìgì dicendole: “Fidati, se un uomo ti tratta come se non gliene fregasse un cazzo di te, non gliene frega un cazzo di te davvero!”.

 

Dunque, per logica, aggiungiamoci anche questa: “Se in un litigio con reazioni spropositate ci sembra che non ci sia un valido motivo, quel motivo valido non c’è davvero.”

 

Ivana Napolitano ci spiega che il silenzio punitivo rappresenta una potente forma di manipolazione all’interno delle relazioni tossiche. Identificato in psicologia come atteggiamento passivo aggressivo, il silenzio come “punizione” viene utilizzato per far fronte alla rabbia. I manipolatori tollerano poco e male le frustrazioni, basta una parola “fuori posto”, un commento non gradito, un gesto o addirittura uno sguardo non approvato per minare il loro grandioso ego e per dare sfogo alla rabbia e alla ferita narcisista che tale “sfregio” ha inflitto. Spesso interrompono ogni forma di comunicazione con il/la partner, colpevole di non aver valorizzato in maniera adeguata il loro valore, appunto, scelgono il silenzio senza che l’altro abbia la possibilità di comprendere cosa sia successo. In realtà, ripudiano il confronto, non essendo capaci di sostenerlo. Il silenzio è un’arma micidiale che lascia chi lo subisce in una condizione di ansia e confusione, è un atto violento che reiterato nel tempo può causare danni psicofisici molto gravi.

 

Ma perché lo fanno? Cosa ci vogliono dire con il trattamento del silenzio?

Lo scopo è sempre lo stesso, avere il controllo di su di noi e ci stanno dicendo, in pratica, che noi esistiamo solo se e quando loro lo decidono.

 

Post-it: Qui rafforziamo ulteriormente il concetto che una relazione tossica non sia fatta propriamente da una vittima e un carnefice, come abbiamo visto nel girone precedente, anche quel “tossica” ci dice chiaramente qualcosa.

I protagonisti di tale relazione sono pari a una drogata e al suo pusher di fiducia, dipendenti entrambi l’uno dall’altra, bisognosi entrambi l’uno dell’altra.

 

Per il narcisista “il silenzio punitivo” è il primo vero test per mettere alla prova la “prescelta” e analizzarne il grado dipendenza attraverso l’entità del malessere che le provoca tale trattamento.

Dopodiché avrà il pieno controllo non solo sulla partner ma anche sulle “dosi silenti” da somministrare. Lui sa di essere la droga di lei e il silenzio messo in atto è la sua l’astinenza.

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